Bond in valuta cinese sempre più appetibili

L’interesse per la Cina è sempre vivo, anche se il paese sta attraversando una fase di difficoltà da un punto di vista economico con i principali indicatori macro in continuo calo e con lo spettro sempre incombente dello scoppio della bolla immobiliare. Le autorità cinesi sono in allerta e da tempo sono scese in campo per mettere a punto piani di stimolo per l’economia, che comunque cresce ancora a un tasso del 7% annuo (necessario per mantenere l’attuale livello di occupazione).

La borsa di Shanghai sta facendo nettamente peggio delle altre grandi piazze finanziarie mondiali, come New York, Francoforte e Londra, e da inizio anno è in territorio negativo. Tuttavia, molte aziende – soprattutto giapponesi e del Far East asiatico – stanno puntando forte sui titoli di debito denominati in yuan cinesi. Si tratta in particolare dei cosiddetti Dim sum bond, ovvero obbligazioni emesse in renminbi (o yuan) da società cinesi o soggetti che operano in Cina o a Hong Kong, da collocare presso i grandi investitori istituzionali.

Il nome Dim sum bond deriva da quello del tipico piatto cantonese, ovvero piccole porzioni di una vasta gamma di piatti leggeri. L’appeal per questa tipologia di emissioni è sempre più forte in Giappone, dove da inizio anno ad oggi, le aziende hanno già collocato 534 milioni di dollari, un ammontare che è di tre volte superiore rispetto a quello evidenziato nello stesso periodo dello scorso anno. Le aziende nipponiche puntano sullo yuan, mentre le emissioni in euro sono state praticamente azzerate.

I giapponesi hanno spostato la loro attenzione sui titoli in yuan per ragioni commerciali, ma anche perché i bond in euro hanno sempre meno appeal nel lontano Oriente dove il rapporto rischio/rendimento di questi titoli non viene considerato sempre accettabile. Secondo i dati in mano al governo di Tokyo, la Cina è diventata la seconda maggiore fonte di profitti all’estero per le imprese made in Japan dietro agli Stati Uniti. L’investimento in Cina frutta mediamente l’11%, ovvero 4 volte in più degli Stati Uniti e dell’Europa.

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